EVERYTHING EVERYWHERE ALL AT ONCE

Dopo il grande successo di pubblico e critica negli Stati Uniti, arriva l’acclamato film con Michelle Yeoh e Jamie Lee Curtis.

dal 7 ottobre 2022
Sala: cinema Stensen

Descrizione

Everything Everywhere All at Once

di Daniel Kwan e Daniel Scheinert -“the Daniels”- (Usa 2022, 140′)

La protagonista del film è Evelyn, una donna di origini cinesi di mezza età, che gestisce una lavanderia a gettoni negli Stati Uniti.  Il marito che lavora con lei sta per presentarle i documenti per la separazione, la figlia adolescente si è appena fidanzata con un’americana, Becky, e l’anziano padre Gong Gong è appena arrivato dalla Cina a complicare ulteriormente il quadro.

Un audit dell’IRS, l’agenzia delle entrate, fa salire lo stress di Evelyn a livelli di guardia. Nel mentre attorno a lei si muovono forze incomprensibili: sono i personaggi dell’Alphaverse, provenienti da una dimensione parallela …ovviamente per salvare il mondo, anzi per salvare tutti quanti. Arrivano nell’universo di Evelyn dopo aver sviluppato una tecnologia che consente il salto e l’acquisizione dei poteri e delle abilità delle altre versioni di sé, per dare la caccia alla pericolosissima Jobu Tupaki, essere che riesce a manipolare la materia e a passare da una realtà all’altra, dopo aver creato una sorta di buco nero attorno a un bagel gigante, che rischia di inghiottire tutti.

Cinema Stensen Firenze

Spettacoli doppiati:

venerdì 7 ottobre ore 18.15

sabato 8 ottobre ore 21.00

domenica 9 ottobre ore 16.00

lunedì 10 ottobre ore 18.15

mercoledì 12 ottobre ore 21.00

giovedì 13 ottobre ore 18.00

venerdì 14 ottobre ore 18.15

sabato 15 ottobre ore 18.15

domenica 16 ottobre ore 18.15

mercoledì 19 ottobre ore 16.15

sabato 22 ottobre ore 18

 

ORIGINAL SOUND/ Spettacoli in lingua originale con sottotitoli in italiano:

venerdì 7 ottobre ore 21.00

domenica 9 ottobre ore 21.00

martedì 11 ottobre ore 21.00

mercoledì 12 ottobre ore 18.15

lunedì 17 ottobre ore 20.30

mercoledì 19 ottobre ore 21.00

venerdì 21 ottobre ore 21.30

domenica 23 ottobre ore 20.30

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Per approfondire (e orientarsi).

Attenzione SPOILER: si consiglia di leggere i testi che seguono solo dopo aver visto il film
Il film è piaciuto.

La sceneggiatura imbastita dai Daniels propone un’idea di spettacolo all’insegna dell’eccesso (visivo, stilistico, concettuale), ma sempre attento all’estetica e al cuore della propria storia. Nel mettere sul tavolo gli immaginari cinematografici più disparati creano un pastiche impazzito e allegramente fuori controllo in cui questo stesso film…è un film all’interno del film.

Everything Everywhere All at Once si presenta al pubblico come una nevrotica dramedy familiare, contaminata in una manciata di minuti da elementi di fantascienza che definire sopra le righe sembra alquanto riduttivo. Ha un impianto narrativo basato sull’assurdo e racconta la storia di Evelyn Wang, nevrotica proprietaria di una lavanderia a gettoni, alle prese con una figlia dalla quale si sente sempre più distante, un matrimonio al capolinea e una zelante impiegata dell’ufficio delle tasse che sta per distruggere quello che rimane del suo universo. Evelyn non ha proprio il marchio dell’eroe sulla pelle, tuttavia viene chiamata a salvare il multiverso da una minaccia cosmica.

Quello che sorprende del film è quanto riesca a stordire lo spettatore, lasciandolo dopo i titoli di coda preda di una sindrome bipolare: si ride moltissimo, ma ci si commuove moltissimo e si spende il tragitto verso casa in balia di strani postumi emotivi. Si riflette sulla propria vita, sulle strade prese o da prendere, su quanto sia importante esercitare l’amore in ogni sua forma, per una persona o per un figlio, e ovviamente ci si scopre a ridacchiare pensando alle trovate umoristiche del film. Perché dietro la comicità demenziale a volte triviale e dissacrante, dietro il Cinema di arti marziali di Hong Kong, alle atmosfere di Wong Kar Wai e dietro gli elementi sci-fi, nasconde la volontà di affrontare un dramma familiare attraverso il genere, costruendo con questo una metafora di grande intrattenimento e sostanzialmente piantando nello spettatore, con un preciso colpo al plesso solare, il germe di una storia accorata e commovente che sboccerà in lui quando meno se lo aspetta. I Daniels scrivono e dirigono un film di intrattenimento che è metronomo del tempo, che non può fare altro che tenere il pubblico avvinto allo schermo del cinema tra lacrime e risate, costringendolo a portare a casa un pezzo di questa folle, inaspettata e meravigliosa esperienza assurta rapidamente a manifesto del miglior Cinema indipendente americano.

Il racconto prende man mano una forma universale con riferimenti alla famiglia, alle diramazioni che la nostra vita può prendere, all’amore e a come esercitare gentilezza sia, soprattutto nel conflitto, la nostra unica salvezza.

Diventa anche presto chiaro che il multiverso non è (solo) uno strumento per sciorinare gag e siparietti citazionisti, quanto un elemento di fantascienza che si presta come straordinario concept per rappresentare i personaggi, indagare nella loro morale e divertire lo spettatore, implementando idee che sono organiche rispetto a quanto raccontato, piuttosto che corpi estranei slegati dal contesto e dall’incedere della storia.

Ogni regola dietro il funzionamento di questa idea di multiverso passa per la messa in scena, per una manciata di indicazioni date alla protagonista (e allo spettatore, altrettanto incerto e sconcertato quanto lo è lei) tra scene d’azione concitate o dialoghi serrati scanditi dai ritmi leggeri che permeano il film.

Gli effetti speciali e le soluzioni di montaggio, sempre meno utilizzate in favore di enormi green screen ed effetti visivi poco rifiniti, sono il valore aggiunto di una coppia di registi che sa benissimo come sfruttare quello che ha senza rimettere all’indulgenza dello spettatore la riuscita del film: quello che si vede sullo schermo è stupendo, credibile, scritto e messo in scena per divertire e divertirsi con il pubblico senza chiedergli di chiudere un occhio o innescando il confronto con produzioni più ricche e attrezzate, trovando quindi un proprio carattere o stilema impossibile da scambiare per altro.

Quando invece serve grazia e garbo, ci trasportano in una realtà dove il Cinema è la vita e l’amore è quello di Wong Kar-wai, dove gli stilemi visivi e narrativi del regista diventano il linguaggio romantico del film in un’ennesima citazione, più raffinata rispetto a Ratatouille o Matrix che comunque sono parte integrante della visione generale.

Ma tutto questo, in realtà, è solo il pretesto per l’umanissimo racconto di identità e smarrimento esistenziale alla base: la storia di una madre immigrata dalla Cina, Evelyn Quan Wang (Michelle Yeoh), del marito (Ke Hui Quan), della figlia adolescente e dei problemi di una famiglia cinese trapiantata negli Stati Uniti.

Gli enigmi sul Multiverso non sono nulla in confronto all’enigma che è l’universo in cui esistiamo, il contesto culturale e sociale in cui siamo cresciuti, il peso delle tradizioni e tutto ciò che tramandiamo da una generazione a quella successiva. Forse la sua capacità di intercettare nevrosi e sensibilità contemporanee e plasmarle in un racconto allo stesso tempo personale e universale ci ricorda l’immenso potere dell’immaginazione e delle storie, se non di tutti gli universi possibili, almeno del nostro.

Il film si richiama al Buddismo?

Nonostante il film risulti una commedia bizzarra, forse un po’ difficile da comprendere, una possibile chiave per decifrarlo sono i riferimenti alla filosofia buddista.

Sono due gli oggetti principali del film: il bagel nero e il googly eye. Lì per lì sembrano non avere significato mentre in realtà sono importantissimi, dal momento che sono l’uno l’opposto dell’altro ma anche complementari, come lo Yin e lo Yang. Infatti, il bagel al di fuori è nero, con all’interno un cerchio bianco; mentre l’occhio è bianco all’esterno con il cerchio nero all’interno: il bagel rappresenta quindi lo Yin, associato alla parte più oscura di noi, al negativo; l’occhietto è invece lo Yang, associato invece alla nostra parte di luce, al positivo.

Inoltre viene esplorato un altro concetto fondamentale della filosofia buddista: bagel è l’universo del senza senso e dell’illusione; ma è qui che arrivano gli occhietti a dirci che, anche in un universo apparentemente insensato (quello dei sassi?), ci sono valori e amore se lo vogliamo. E guardando attraverso la lente dell’occhietto possiamo ottenere il potere della presa di coscienza e del controllo della nostra realtà. Sotto questo punto di vista, quindi, è il marito Waymond il vero combattente: colui che ricorda a sua moglie, attraverso la gentilezza, che c’è del valore dove e se lo vuoi creare, e c’è un senso dove tu decidi di trovarlo. Riprendendo un pensiero buddista: è la nostra compassione che ci rende umani e il vuoto è un’opportunità per lasciare alle spalle il male e gioire del bene.

 

Il film non è piaciuto.

Il percorso dei Daniels è indubbiamente affascinante. Perché il loro è un action forsennato che prova a riscoprire il calore della creazione narrativa fine a sé stessa, giocosa, che non ha paura di spingersi oltre, di apparire assurda. È un blockbuster a bassa fedeltà, quello dei Daniels, un racconto epico che ha la struttura di un gioco tra bambini e che a tratti si lancia in exploit quasi Brechtiani, tra lo svelamento del set e l’aperta desacralizzazione di pratiche e manie di un certo cinema pop.

Gli unici punti fermi sembrano essere proprio Evelyn e sua figlia Joy, che “pensano” come elementi di quel digitale che “informa” il blockbuster, evocando intere realtà come link, viaggiando tra universi come dati senza peso e “aggiornandosi” per acquisire più potere. Eppure il fascino dei due personaggi sta proprio nel loro essere costantemente fuori posto, grottesche entità di un’idea di cinema che il film pare costantemente depotenziare e mettere tra parentesi, soppesandone il non senso.

Perché, in effetti, lo dice la stessa Joy, in uno straordinario moto di autoconsapevolezza: “ho attraversato tutti gli universi e ho capito che la verità oggettiva non esiste, ho capito che nulla ha più senso”.

Ma quella dei Daniels è davvero la distruzione di un paradigma? In realtà, tra i fotogrammi di Everything, Everywhere, All At Once, la forma mentis del blockbuster rimane ben ferma al di là di qualsiasi ironica bordata gli si lanci contro. Lo raccontano benissimo proprio le sequenze dei “salti” tra gli universi di Evelyne, in cui i Daniels giocano con i generi, i modelli (attingono, tra le molte occorrenze al wuxia, allo slapstick, all’onnipresente Matrix e divagano persino nel cinema di Wong Kar-wai), ma si guardano bene dal metterli in discussione, dal ragionare davvero sulla loro natura di detriti. Tutto è, anzi, girato con cura, pensato per risultare narrativamente e visivamente avvincente. Ma così ogni discorso rimane in superficie, tutto si riduce a una fiacca rimasticatura di spazi noti, l’ironia non è più così dirompente, i riferimenti di base rimangono leggibilissimi e le attese di chi guarda vengono, in fin dei conti, rispettate. Un po’ troppo poco per delle premesse così ambiziose.

L’unico elemento veramente di rottura del sistema è la stessa Evelyn, personaggio inedito ed efficacissimo proprio perché “duale” a partire dalla sua identità, sino-americana, combattente interdimensionale ma anche borghese depressa, bloccata in un matrimonio al capolinea e proprietaria di una lavanderia a gettoni vicina al fallimento. E tuttavia, paradossalmente uno spunto così di rottura agisce quasi per inerzia, si muove a fatica in un mondo che pare non volerla accettare davvero e, quando non salta tra gli universi, si ritrova in un contesto rigido, impersonale, stucchevole, in cui le svolte del racconto sono così prevedibili da costituire quasi una struttura archetipica di tutte le possibili incarnazioni del più convenzionale cinema “da Sundance”.

Ma se anche l’indie rimane uno spazio rassicurante, allora la rivoluzione dei Daniels non può che rimanere un proclama vuoto di due autori troppo impauriti, forse, dell’impatto del film sul pubblico per calcare davvero la mano e gettarsi nel vuoto. Al momento, ironia della sorte, il box office in patria dà loro ragione, Everything, Everywhere, All At Once si è rivelato un film popolarissimo e trasversale. Ma il successo non nasconde l’inquietudine di un film che ragiona solo sulle superfici, nato al punto d’incontro tra un blockbuster che teme la sua natura disimpegnata e un indie che vuole disperatamente apparire meno serioso.

E allora tutto si risolve in un falso movimento, quello di due idee di cinema che, in realtà, non vogliono mai trovare una vera quadra, piuttosto puntano ad hackerare nuovi mercati, penetrare nuovi strati di pubblico senza riflettere davvero sull’immaginario di riferimento, come in una degenerazione di quel germe che già era in The Gray Man.

Il cocktail è certamente originale, il sapore lascia tuttavia interdetti, perché l’accumulo di suggestioni e dimensioni diverse alla lunga serve solo a coprire la semplicità di una storia che avrebbe meritato un tocco più gentile.

Invece i Daniels usano una mano pesantissima, usano i flashback con il machete, montano alternando suggestioni subliminali a pause incomprensibili, non rinunciano a idee stupide, come l’universo in cui i personaggi hanno dei wurstel al posto delle dita, per una risata di pancia. Non riescono mai a trovare il ritmo giusto, procedendo con l’accumulo e le spiegazioni non richieste.

È un’affascinante, ambizioso fuoco di paglia, il film dei Daniels, che paradossalmente potrà sopravvivere solo se qualcun altro ripartirà da qui e si incaricherà di finire ciò che loro hanno (a malapena) iniziato.