Il virus, il primato della natura e un’umanità più corresponsabile
L'articolo di Ennio Brovedani S.J. sul coronavirus, pubblicato su "Stamp Toscana" il 30 marzo 2020.
Descrizione
Dopo decenni di sorprendenti progressi della ricerca e sperimentazione tecno-scientifica e biomedica, che hanno quasi raddoppiato le aspettative medie di vita rispetto al secolo scorso (47 anni nel 1900 e 83 oggi — secondo le più recenti proiezioni statistiche) la pandemia da “Coronavirus” che, a partire dal gennaio scorso, si è improvvisamente e rapidamente diffusa in tutto il Mondo, ha letteralmente sconvolto le “certezze” personali, sociali e globali di moltissime persone e prestigiose istituzioni nazionali e internazionali, sempre più orgogliose del crescente potere acquisito nel dominio sulla natura e del loro tentativo di acconsentire un futuro rassicurante.
Un “sapere”, in altre parole, che ha conferito un crescente “potere” e ha indotto anche una riflessione etica (bioetica) sui conseguenti “doveri”, ossia, sull’ammissibilità morale o meno del ricorso a determinate ricerche, sperimentazioni e applicazioni. Tale riflessione ha trovato poi una sua enunciazione e definizione formale nel principio bioetico — universalmente acquisito — che “non tutto ciò che è tecnicamente possibile è anche moralmente ammissibile”.
Eppure, nonostante i successi e la volontà di gestire eticamente questo inedito progresso, è bastato un microscopico e sconosciuto virus (COVID-19: dove “CO” sta per corona, “VI” per virus, “D” per disease e “19” indica l’anno in cui si è manifestato) a mettere in discussione non solo consolidate certezze ma anche abitudini personali e comportamenti sociali, che da molti secoli hanno caratterizzato lo stile delle relazioni umane, nelle diverse comunità civili, etniche, culturali e confessionali di appartenenza, suscitando sconcerto e non poco disagio, di fronte all’imposizione di opportuni provvedimenti finalizzati al controllo e al contenimento dell’infezione virale.
E’ difficile prevedere quali risultati avranno i provvedimenti finora presi e i successivi aggiornamenti, anche se sembrano aver funzionato in Cina, dove il coronavirus ha cominciato a manifestarsi nel dicembre 2019 e sono stati positivamente valutati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e molti altri Paesi europei li stanno adottando.
Ci vorrà ancora del tempo per rendere innocuo il virus e predisporre un vaccino specifico capace di indurre, analogamente a quelli influenzali, un’immunità acquisita. In ogni caso, nonostante le incertezze, è prevalso un diffuso senso di responsabilità, a quanto pare più convinto che utilitaristico, dettato cioè dalle possibili conseguenze e dalla paura.
Il contenimento e il controllo dell’infezione virale, però, rappresenta solo un aspetto — sicuramente importante e previo — dell’evento che stiamo affrontando nella sua specificità e globalità. Vi sono infatti altre implicazioni e conseguenze più ardue da prevedere e valutare. Esse concernono sia le disposizioni prese in merito dalle autorità competenti, su cui vi è un generale consenso, sia il loro impatto sulla qualità della vita sociale, delle relazioni umane e della cultura. La storia, del resto, documenta come alcuni analoghi eventi del passato (si pensi, per esempio, alla peste descritta da Alessandro Manzoni ne “I promessi sposi” e più recentemente da Albert Camus nel suo omonimo romanzo) abbiano avuto un effetto non solo di destrutturazione dei comportamenti umani e della cultura dominante, ma anche di induzione di nuovi valori e comportamenti sociali. Le stesse rivoluzioni scientifiche (come, per esempio, il passaggio dal geocentrismo all’eliocentrismo nel XVI secolo) — benché in un contesto più propriamente culturale, ma non per questo meno incisivo — hanno avviato dinamiche analoghe, che hanno profondamente mutato, se non capovolto il nostro modo abituale di pensare e interpretare la realtà.
L’evento, che ci ha colto d’improvviso e i cui effetti devastanti cerchiamo in tutti modi di contrastare, ci rivela in primo luogo — anzi, ribadisce — che la “natura” è più forte della “cultura”, se un microscopico e invisibile organismo, risalente ai primordi della vita sulla terra (circa 3,2 miliardi di anni fa, ci dicono i microbiologi) e dopo aver subìto indefinite mutazioni aleatorie, al punto da renderlo irriconoscibile (il “nemico sconosciuto”, a cui allude la stampa) è in grado di mettere a repentaglio le più complesse organizzazioni umane, se non l’uomo stesso, nella sua supponente presunzione di competere con la creatività biologica, realizzando in laboratorio delle specie biologiche non esistenti in natura. Come osservava un poeta — di cui non ricordo il nome — la potente e irrefrenabile “pulsione riproduttiva”, propria della vita e intrinseca ad ogni organismo vivente, è la voce della stessa natura che ti dice: “vai e riproduciti”.
L’integrità della biosfera, inoltre, è un valore da tempo acquisito, un “tutto” più della “somma delle parti”, esito di una rete di relazioni e interazioni su cui non si può sconsideratamente interferire, con il pretesto, per quanto affascinante, di far progredire le conoscenze e il relativo “potere”, senza previamente interrogarsi sull’etica delle conseguenze. Non per questo — come alcuni organi di stampa hanno subdolamente e sbrigativamente insinuato — il “coronavirus” sarebbe l’esito di irresponsabili sperimentazioni di laboratorio, ma è semmai un’occasione, pagata a caro prezzo, per riprendere o aggiornare una riflessione comune sul rapporto “natura-cultura” e le relative implicazioni. La “natura” non esiste come tale, ma è un’astrazione funzionale al nostro dominio.
In secondo luogo, una volta scongiurato il pericolo di contagio, non sarà semplice prevedere e rilevare quanto l’evento “coronavirus” avrà inciso sui nostri sentimenti e comportamenti, sull’affidabilità o meno delle nostre relazioni e sulla stessa esperienza religiosa. I provvedimenti in corso, infatti, per arginare e contenere l’infezione virale, hanno sancito — nella loro ineludibile e impietosa necessità, — delle severe limitazioni agli abituali assembramenti sociale e attività culturali, alle relazioni umane dei soggetti contagiati, incluse le celebrazioni liturgiche e la stessa commemorazione dei defunti, accentuando, in tal modo, la solitudine nella memoria dei propri “cari” (“morto come un cane”, si legge spesso sui giornali”).
A nostra memoria, soprattutto recente, è difficile individuare un periodo storico, o qualche evento straordinario, in cui siano stati sospesi d’ufficio gli stessi riti religiosi, per loro natura comunitari e assembleari, quale impegno a praticare la carità (eucarestia) e riconoscenza a coloro che hanno generosamente contribuito a tessere la rete delle nostre relazione affettive e sociali e a forgiare la nostra stessa identità.
Quest’isolamento forzato per ragioni di circostanza favorirà sicuramente la tendenza ad instaurare delle relazioni “virtuali”, del resto già indotta dal crescente uso di internet e dei più diffusi “social” di comunicazione, privandoci, in tal modo, di quell’insieme di sentimenti ed emozioni che solo una relazione reale consente di suscitare e vivere, nella reciproca gestione della nostra corporeità e “guardandoci negli occhi”, per ricorrere ad una diffusa metafora. Per tutti noi, — che abbiamo trascorso uno tra i cinquantenni più fortunati e prosperi della storia, — inizierà forse una nuova fase o epoca dell’esistenza umana più corresponsabile, meno individualista e impegnata a gestire le nuove complessità in un contesto di crescente globalizzazione.
Ma anche la riflessione teologica — perlomeno quella concernente le tre grandi religioni monoteistiche (Ebraismo, Cristianesimo e Islam) — non potrà esimersi dall’interrogarsi sul senso dell’evento “coronavirus” nel contesto della propria tradizione ed esperienza di fede, non solo attraverso la preghiera, che aiuta il discernimento in tutte quelle situazioni umane in cui prevale l’oscurità, rispetto alla luce, ma anche sul ruolo e lo stesso “volto” di Dio, in simili improvvise e drammatiche catastrofi naturali. Un “volto” meno antropomorfico e più corrispondente alla sua realtà, come ammonisce l’evangelista Giovanni quando afferma che “Dio, nessuno lo ha mai visto” (Gv 1,18) e “lo vedremo come egli è” (1Gv 3,2), e non come ce lo immaginiamo, con il rischio di ricondurre o confondere l’esperienza spirituale con dinamiche psicologiche.
Ennio Brovedani S.J.
Presidente Fondazione Stensen